#ilgigantebuono

“Sei proprio un betolér…”.

Me lo diceva spesso mia madre, da piccolo.

Un termine molto strano, aulico, quasi impossibile da comprendere a fondo.

E’ la storpiatura dialettale di quello che potremmo definire un “frequentatore di bettole”.

Un… bettolaio, se preferite.

Ma non per forza la bettola deve avere un’aurea negativa, di luogo losco, quasi segreto… fumoso. Beh, fumoso un po’ sì, almeno quella che frequentavo io, da bambino.

Laddove finiva la strada e iniziavano i monti sopra il lago d’Iseo. Laddove negli anni ottanta gli anziani avevano ancora un’usanza: quella di trovarsi, giocare infinite partite a carte e chiacchierare a lungo.

O meglio… raccontare a lungo.

Ricordo ancora quei tavoli di legno massiccio, i posacenere che traboccavano a fine pomeriggio, i bicchierini a metà fra la flûte e il calice, con il fondo sporco del rosso lasciato dal vino. E ricordo ancora quei nonni. Gente da bettole sane, con le mani gialle di fumo e rovinate dal lavoro.

Con i volti rugosi e gli sguardi sicuri.

Fra loro ce n’era anche uno che per me aveva un significato particolare. Un omone grande e grosso, baffi e capelli bianchi, camicia con maniche rimboccate estate e inverno e un’espressione da gigante buono.

A me piaceva sedermi accanto a lui alla fine di quelle partite e ascoltare quelle parole.

Si raccontavano storie di guerra, di gioventù, di epiche avventure che neppure nei film avevo mai visto. Storie di un mondo che sembrava così lontano da essere irreale, di non essere mai neppure esistito.

Eppure loro le raccontavano con tanta precisione di dettaglio e di particolari che non avrebbero mai potuto essere inventate. Magari un po’ esagerate, amplificate, ma vere e autentiche.

Proprio come loro.

Il gigante buono amava soprattutto raccontare storie di guerra. Raccontava di quella volta che in Sardegna il suo contingente fu bombardato, ricordava che tutti i soldati si ripararono all’interno di un cimitero di campagna e che solo lui riuscì ad uscire da quel cimitero con la vita ancora attaccata al corpo.

Ricordava e – spesso – si commuoveva a pensare a quei fatti. I suoi occhi si bagnavano, la sua voce si faceva più flebile. A quel punto si fermava, sospirava e portava alla bocca il bicchiere.

Accendeva la sigaretta e ne faceva un tiro.

Oppure raccontava storie di caccia. Di quella volta che per colpa del buio del mattino presto, suo malgrado sparò ad un paio di uccelli proibiti. Uscì per andare a raccoglierli, ma sentì una voce dietro alle spalle: “Non si disturbi, li raccogliamo noi” e prese una multa salatissima.

Gli agenti avrebbero voluto sequestrargli anche il fucile, ma lui non glielo diede. Un S. Etienne unico, che custodiva da anni come fosse un figlio… si vide raddoppiare la multa, ma non ebbe dubbi, quell’arma non si sarebbe staccata da lui.

Raccontava anche di pallone, il gigante buono. E di quella volta, l’unica nella sua vita, in cui era andato a Napoli per assistere ad una partita fra i partenopei e la Juventus, sua squadra del cuore.

Era un mansueto ma si era ritrovato nel caos dei tifosi e la polizia aveva ben pensato di calmare i bollenti spiriti con gli idranti… aveva giurato che non sarebbe mai più andato allo stadio in vita sua.

E mantenne quella promessa.

Io ascoltavo quelle storie e sgranavo gli occhi ad ogni racconto. Un bambino non può fare altre che lasciarsi trascinare dalle parole in mondi di fantasia e mi sembrava di vedere quella guerra, mi sembrava di essere lassù in quel capanno di montagna in una gelida alba d’autunno oppure in quello stadio in un torrido pomeriggio napoletano.

Non potevo immaginare che quelli sarebbero stati i miei primi “punti luminosi” le prime sollecitazioni alla mia voglia di raccontare. Non lo avrei capito per molto tempo. Avrei soltanto continuato a sedermi accanto a quei nonni dal volto rugoso ogni volta che potevo scappare ai compiti e alla scuola.

Poi anche io crebbi e anche per me venne il momento di decidere cosa fare da grande.

Dopo gli studi mi accolsero le prime scrivanie del giornalismo, le prime redazioni, i primi articoli, le prime firme sui quotidiani e le prime apparizioni nei telegiornali.

Ma, di nuovo, ancora non potevo immaginare che fra quella professione e quella bettola si sarebbe creata un’alchimia perfetta. Fino a quando, dopo molte pagine e migliaia di righe, mi accorsi che non ero diventato un giornalista.

Ero diventato qualcos’altro.

Ero diventato come loro, come quei nonni. Come il gigante buono.

E come loro avevo qualcuno che ascoltava, che leggeva.

Non era appoggiato ad un vecchio tavolo di legno massiccio in un’osteria fumosa, ma faceva la stessa, identica cosa: ascoltava le mie storie, il collegamento fra i miei punti luminosi.

Riuscì a vedermi crescere, il gigante buono. E quel suo volto sempre più rugato mostrava un’espressione orgogliosa e amorevole. Uno sguardo di quelli che non si dimenticano mai, nella vita.

Lo vidi per l’ultima volta in una notte di novembre del 2004, una notte gelida in cui la terra aveva tremato a lungo… una notte cupa, notte da terremoto.

Era sdraiato su un letto. Io strinsi le sue mani e mi avvicinai al suo volto per un sorriso d’affetto. Se ne stava andando, ma quegli occhi ricambiarono con un ultimo sguardo di paura mista a fede.

Se ne sarebbe andato dopo poche ore con i suoi racconti, con i suoi aneddoti e con quella grande saggezza che regalava punti luminosi in ogni sua parola.

Avevo una figlia, quella notte, una compagna di vita, una professione e tutto ciò che un adulto può desiderare, ma mi sentii di nuovo piccolo e insicuro.

Mi sentii di nuovo in quell’osteria, accanto a loro. Fra quell’odore di fumo e di vino…

Avrei dovuto essere triste, quella notte, ma mi accorsi di stare stranamente bene.

Pensai che un giorno, molto tempo dopo, se ne avessi avuto la fortuna, anche io avrei voluto essere un nonno così per i miei nipoti.

E’ per questo che, ancora oggi, amo ogni volta che qualcuno mi chiama in quel modo... ogni volta che qualcuno mi chiama betolér.