Shoah, banalità e colori del male

Perché proprio la shoah? Perché quella e non un altro sterminio? In fondo ce ne sono stati molti, purtroppo nella storia umana. Eccidi che hanno causato molte più vittime di 6 milioni di persone, oppure che si sono concentrati in molto meno tempo. Si pensi ad esempio all’eccidio del Ruanda, oppure a quello conseguente la guerra nei Balcani, oppure ai nativi d’America, o nei confronti delle popolazioni dell’America latina. E poi ancora… le “purghe” sovietiche, l’apartheid in Sudafrica… perché proprio la shoah? Con una giornata della Memoria dedicata, approvata con legge della Repubblica italiana.

La risposta è molto più semplice e meno “politica” di quanto si possa pensare ed è il motivo per il quale milioni di persone ogni anno (ragazzi e adulti) visitano il campo di Auschwitz, il motivo per cui attorno alla shoah vi è una fiorente attività editoriale, per cui grandissimi registi hanno realizzato capolavori cinematografici, per cui il teatro civile mondiale ha dedicato centinaia di spettacoli ispirati a quei fatti. La risposta è una sola: la shoah non fu un eccidio! Lo sterminio degli ebrei non fu un vero e proprio sterminio. O meglio, non fu solo uno sterminio. E’ un concetto piuttosto difficile da capire, ma la sua comprensione sgombra il campo da molti preconcetti sul fatto che attorno alla shoah si sia sviluppato un movimento “esagerato” rispetto a quello che si è più o meno sviluppato attorno ad altri episodi della storia umana.

La shoah ebbe una grande differenza rispetto a tutti questi altri eccidi di massa: considerò dal principio la morte corporale soltanto come ultima conseguenza di un percorso di snaturalizzazione dell’uomo. Una base che nessun altro eccidio ha mai considerato nella storia. Anche quelli vennero studiati e pianificati a tavolino, ma non come la shoah. In tutti gli altri l’obiettivo era l’eliminazione della vita in quanto tale, nella shoah l’obiettivo era la trasformazione dell’uomo in bestia, in animale, in essere inferiore. Uccidere semplicemente sarebbe stato un delitto e avrebbe procurato sensi di colpa. Al contrario, sentirsi parte di una macchina di cura di un parassita, lasciava i nazisti liberi di fare conti leggeri con la loro coscienza.

Al processo di Norimberga, uno dei medici che avevano perpetrato le prime morti fra i disabili tedeschi, alla domanda di un pubblico ministero sul suo senso di colpa rispose in maniera molto decisa e inequivocabile: “Noi non uccidevamo persone malate o disabili. Il reich era il malato e noi non facevamo altro che curarlo, che salvarlo dai parassiti che lo impestavano”. Il vero senso della follia collettiva è tutto in queste poche e misere parole. La morte, per i nazisti, non era il fine, era il mezzo. Per questo non si pentirono e non si sentirono in colpa.

La morte era soltanto l’ultimo stadio: poteva arrivare e poteva anche non arrivare, ma prima di quella gli uomini, le donne e i bambini che erano “trattati” dal regime erano già morti! Questo era il vero obiettivo: la snaturalizzazione di un popolo. Non si eliminano i popoli togliendo la vita alle persone, si eliminano i popoli togliendo l’anima alle persone. Per questo la conferenza di Wannsee (Berlino), nel 1942, nella quale i nazisti stabilirono le line guida dell’eliminazione degli ebrei, fu soltanto la risoluzione di un problema numerico, non l’anima della soluzione finale. Quella iniziò molto prima. Con l’emanazione delle leggi razziali che trasformarono gli ebrei in sottocittadini, in sottouomini. In maniera strategica, rigorosa e astuta i nazisti non perpetrarono da subito uccisioni del corpo, ma perpetrarono un’immensa operazione di uccisione delle anime.

Si pensi alle leggi che cacciarono gli ebrei da scuola. Prima di quell’emanazione imposero lo studio delle qualità delle persone “ariane” fra i banchi. Convinsero gli insegnanti a penalizzare gli studenti ebrei, a falsificare i loro compiti (il tradimento più grande per un insegnante!) per farli sentire effettivamente inferiori, per farli sentire effettivamente stupidi. Convinsero i loro compagni “ariani” dell’inferiorità del vicino di banco ebreo, che non aveva mai buoni risultati a scuola (a causa delle falsificazioni), che non era come loro fisicamente (a causa delle teorie genetiche razziali), che non aveva un fisico come il loro (gli insegnanti di ginnastica furono grandi alleati dei nazisti nella sistematica falsificazione delle prove fisiche dei ragazzi ebrei). Se non li avessero convinti, quei ragazzi non avrebbero accettato che da un giorno con l’altro i compagni ebrei venissero cacciati da scuola, invece lo capirono e approvarono senza colpo ferire. Era giusto così, per loro, erano inferiori. Nessun rincrescimento, nessun senso di colpa. A casa i loro genitori lo giustificavano. Anche loro vennero “trattati”, esattamente come i loro figli a scuola. Li convinsero che gli ebrei erano indegni di fare gli imprenditori, perché meno dotati mentalmente, che erano indegni di fare i medici (perché il loro corpo, dal sangue agli arti, era diverso da quello degli “ariani”), li convinsero che erano indegni di vivere nella stessa società, frequentare gli stessi negozi, le stesse sale da the, gli stessi luoghi, perché erano “diversi” da loro. E come si fa a bere un the con un “uomo” che ti hanno detto per molto tempo essere più simile a una bestia e un parassita che non a una persona? Se hai la possibilità di scegliere con chi bere quel the, l’ultima cosa che faresti é berlo con lui. I nazisti non pagarono l’approvazione e il silenzio dei civili “ariani”: i nazisti convinsero con arguzia quei civili ariani che loro erano nella ragione e che tutto quel che sarebbe accaduto aveva delle motivazioni molto fondate. Pensiamo alla fase prima delle deportazioni.

Pensiamo all’istituzione dei ghetti. I nazisti tolsero alle famiglie ebree ciò che avevano di più prezioso, ovvero la loro abitazione (fra le mura di una casa c’è tutta la vita di una famiglia, ogni mattone cela un ricordo, un’emozione) e li stiparono in 7/8 persone che neppure si conoscevano in una sola stanza. Proviamo ad immaginare di andare a vivere con persone che non conosciamo, mai viste prima e condividere con loro quel che è per noi più intimo, dal tavolo per mangiare al letto per dormire, al bagno per fare i bisogni fisici. L’effetto è che non ci sentiremo più persone, non ci sentiremo più una famiglia. E per non rischiare di generare dubbi i ghetti vennero circondati da mura costruite a forma di lapide cimiteriale: camminare in una strada circondata dalle lapidi che effetto dà se non quello di vivere in un cimitero? Poi le drammatiche deportazioni: perché far viaggiare le persone in un carro bestiame? Unicamente per farli sentire animali! Perché costringerle a evacuare i propri bisogni fisici in un bidone, senza potersi lavare? Unicamente per farli sentire sporchi e luridi. Perché permettere soltanto una valigia per famiglia? Quanta vita si può mettere in una sola valigia? Praticamente nulla! E quando una persona perde tutta la sua vita, che sia un vestito oppure una bambolina di pezza con cui è crescita, perde tutto, perde se stessa, perde la sua anima.

Così accadde anche nei campi di sterminio, soprattutto nei primi anni, prima dello sterminio di massa (che inizio nel 1942 con l’operazione Reinhard per poi proseguire ad Auschwitz e in altri campi con l’applicazione sistematica e su larga scala dell’insetticida Zyklon B). La morte arrivava per i deportati quasi come una liberazione, per certi versi in quelle condizioni era quasi più attesa che temuta. La vera morte avveniva prima: facendo suonare canzoni allegre alle orchestre nel bel mezzo dell’inferno, facendo mangiare brodaglie schifose direttamente con la bocca, senza posate, come i cani, togliendo i vestiti, togliendo le scarpe, togliendo i peli su ogni parte del corpo. Togliendo il nome alle persone. Facendo accadere quasi tutto come se fosse un caso: ora, un uomo può regolarsi e scegliere cosa fare se ciò che gli succede attorno accade per una regola, più o meno precisa. Ma quando ciò che ti succede attorno accade a caso, allora ogni tua scelta può essere sbagliata e perseverare nelle scelte sbagliate ti fa sentire un fallito, un errore della natura, una nullità non in grado di influenzare il tuo destino. Si pensi anche alla questione del nome. Se uno si chiama Giovanni e da un momento all’altro si chiama X5567 e tutti i giorni, per molti giorni di fila deve rispondere soltanto quando lo chiamano X5567… beh, ben presto si dimenticherà di chiamarsi Giovanni e si convincerà di essere soltanto X5567, un insieme di numeri, una fredda e insignificante sigla. Potremmo andare avanti ore a definire i passaggi di questa snaturalizzazione dell’uomo, citando aneddoti e elementi vari.

Ma il concetto pare già sufficientemente emerso: come mai quando si parla di “banalità del male” si prende in considerazione immediatamente la shoah? Unicamente perché quel male non coincideva, come per tutti gli altri casi, nel male considerato il maggiore, ovvero la morte, ma coincideva con un percorso di uccisione morale progressiva, al termine della quale l’uomo si sentiva talmente diverso dagli altri uomini che vedeva la morte come un’ultima liberazione dalla sua condizione di inferiorità. Questo è il vero nesso per cui ieri, oggi, domani e per sempre la shoah rimarrà come monito estremo e più grande della malvagità umana (Emanuele Turelli)