#nonpossohodanza

C'è addirittura una linea di abbigliamento  dedicata...

Le scrivono ovunque quelle quattro parole: su felpe, magliette, pantaloni, borse… “non posso, ho danza”.

Succede in tanti sport, ma in questo ha un sapore particolare.

Anche un profumo… particolare! Quello del gesso strisciato sul palco in legno di vecchi quanto affascinanti teatri.

Rappresenta una sorta di "premio" alla rinuncia. Anche se la rinuncia solitamente porta con sé un'accezione negativa, di sacrificio, di sofferenza per essersi privati di qualcosa. Stavolta non è così, o meglio: non è proprio così.

Ve lo dimostro con una storia: c'erano una bambina di 5 anni, due genitori e un sogno, anche se quello non aveva ancora fatto il suo ingresso ufficiale nella schiera dei personaggi di questa storia… c'era, ma ancora non si vedeva.

Ad esserci, invece, in maniera concreta, era un altro elemento: la musica.

Quella bambina era rapita dalla musica. Da tutta la musica.

Quasi non sapeva ancora comminare sicura, ancor non era in grado di leggere, di scrivere e di far di conto… ma era in grado di farsi rapire dalle note.

Per ore e ore le ascoltava e librava la sua mente in mondi sconosciuti, volando in una realtà sublime e leggera come il planar di una piuma.

I suoi occhi guardavano l’infinito mentre quelle note solleticavano i suoi timpani e il suo piccolo e fragile corpo assecondava quelle sensazioni: vibrazioni che toccavano un’anima leggera e desiderosa di crescere, facendo passare quelle sensazioni dal cuore fino ai piedi, dalla mente fino all’estremità delle fragili braccia.

I due genitori non ebbero dubbi e assecondarono quegli strani e affascinanti rapimenti con le prime scarpette, i primi body, i primi tutù, più per dare una “casa” a quei rapimenti che non per costruire un futuro a quella piccola.

Le prime scuole, i primi insegnanti, i primi, strani sorrisi compiacenti di quelle maestre e i primi palchi: quelli che fanno bagnare gli occhi ai genitori e ai nonni, tanta è la dolcezza infantile che portano con sé.

Momenti di un’innocenza assoluta, durante i quali il mondo scompare e si apre un nuovo sipario: quello delle emozioni.

Quella bimba cresce e impara a leggere, scrivere e far di conto. Mamma e papà la accompagnano nella grande avventura dell’apprendimento e della crescita.

Nel frattempo non forzano mai la sua volontà: sono convinti che i bambini debbano crescere assecondando le loro passioni e i loro sogni. Facendo quel che li fa stare bene…

Sono bambini… meritano di essere bambini e di vivere da bambini.

E quel che fa stare bene quella piccola è muovere il suo corpo ascoltando quelle note. E’ indossare quelle scarpette appena finita la scuola, è entrare in quella sala e sentire il profumo di quella passione, osservare “le grandi” che sudano e lavorano e sgranare gli occhi davanti a quei vestiti sfavillanti.

Un misto di magia che scorre fra il sudore e gli occhi sgranati.  

Sei, sette, otto, nove, dieci anni… “ma non le mancherà qualcosa? Non le mancherà fare altro? Passa la vita fra i libri e quella sala…”. Ma la rinuncia è qualcosa che deve mancare realmente, non è qualcosa che si cerca, che si vuole, che fa stare bene…

Soprattutto: quel che può sembrare una rinuncia agli altri, per quanto vicini, non sempre lo è.

Arrivano i primi apprezzamenti delle insegnanti, i primi stage importanti, le prime richieste di audizioni e mamma e papà frenano… “è solo una cosa che la fa stare bene…” pensano.

La assecondano ma non la spingono.

Mai.

L’unica “pressione” che le mettono è nel cuore “nella vita cerca di fare bene tutto ciò che fai, che non significa essere sempre e per forza un campione, significa impegnarsi e dare il meglio di ciò che hai dentro…”.

Ma quelle audizioni sono dure… le sale cult della danza, con quei pianisti che accompagnano le lezioni, spaventano e irrigidiscono mille volte di più della famigliare sala di paese e della sbarra ormai conosciuta centimetro per centimetro… “si chiama… misurarsi con se stessi. Ti capiterà molte altre volte nella vita. si chiama… crescere!”.

E’ facile perdersi d’animo, demoralizzarsi, arrabbiarsi… ma in fondo al cuore di quella (ormai) ragazzina brucia quella passione, che diventa, giorno dopo giorno, più forte di quelle delusioni.

Guarda e riguarda decine di volte la storia di quel ragazzino irlandese di nome Billy e ogni volta che finisce il film lei, con gli occhi lucidi dall’emozione, vola verso quella sbarra e rimugina fra sé quella frase di Billy “Non voglio la mia infanzia, io voglio fare il ballerino”.

Arrivano i 13 anni, dall’infanzia si passa all’adolescenza, ma quella frase sembra essere un evergreen per quella ragazzina. Ora le rinunce non sono più i compleanni da bambini, ora sono le prime passeggiate fra amiche, un gelato insieme, le primissime uscite da sole…

Cambiano solo gli eventi, il tipo di inviti, ma non quella convinzione, non quella passione che continua ad ardere… e allora si convincono anche mamma e papà: vale la pena di provarci e di tentare. L’età e quella giusta, la determinazione non manca.

Ma bisogna provare ad ampliare lo sguardo: i teatri che fanno crescere sono nelle grandi città, quelle sbarre sono molto più impegnative, ma sono le uniche che accompagnano ad un sogno. Altre… è difficile.

E arriva quel giorno di febbraio, freddo e secco come pochi. Arrivano i corridoi di quel teatro, quei manifesti di 30 anni fa appesi ai muri che mostrano i grandi attori della scena italiana e mondiale, i grandi ballerini, quelle “farfalle” che lì hanno studiato sodo e che si sono esibite in tutto il mondo…

Lei attraversa con riverenza quei corridoi: lascia mamma e papà con gli altri genitori, nel corridoio di attesa e con le altre si dirige verso quella sala. Il copione è uguale: ci sono un’insegnante di quelle leggendarie, la musica e la sbarra.

Si volta un’ultima volta verso quei genitori che non l’hanno mai spinta ma sempre incoraggiata a dare il meglio.

Lo sguardo parla di più di tante parole: è un mix fra i sogni che fuoriuscivano dagli occhi rapiti dalla musica di quanto era minuscola e la determinazione che segue la fatica di migliaia di ore alla sbarra.

Mamma e papà lo capiscono subito: non hanno bisogno che qualcuno gli dica l’esito di quella audizione. Loro lo sanno già ancor prima che lei si metta alla sbarra.

E le prime lacrime cominciano a scendere.

Lei, raggiante, neanche pensa a come cambierà la sua vita da quel momento in poi. Non lo fa non perché è infantile, non lo fa perché per lei la vita non cambia, non lo fa perché per lei quella è la vita!

Fuori dal teatro Carcano il freddo punge a Milano, in pieno febbraio, ma il Duomo, specialmente quel giorno merita una veduta…

Camminano insieme, i tre, tanto abbracciati da sembrare una cosa sola, poi lei si stacca un attimo, estrae dalla borsa il telefono e risponde: “è andata bene, sì… mi hanno presa!!!!”

“ma che bello, sono felicissima per te. Troviamoci per festeggiare, dai… ti va domani?”.

“Vediamo un po’… domani… domani… sarà per un’altra volta… non posso, ho danza!”