Chernobyl, 35 anni o pochi secondi fa?

#lastoriainsegna

a cura di Davide Bonetti*

35 anni sembrano un lasso di tempo più che ragionevole per poter consegnare un fatto all’archivio della memoria e della storia; soprattutto se si tratta di qualcosa che è accaduto nell’ultimo ventennio del secolo scorso, il ventesimo, il quale ha conosciuto l’inizio di un’accelerazione senza precedenti sul piano (tra gli altri) della circolazione delle informazioni, capace di far invecchiare eventi, istituzioni, tecnologie e idee a una velocità in precedenza sconosciuta al genere umano.

Il fatto che raccontiamo oggi si sottrae completamente a questa logica, ma allo stesso tempo rischia di soccombere ad essa. Da un certo punto di vista, e per quanto concerne gli effetti e la pericolosità delle sue conseguenze, dire “26 aprile 1986” equivale a dire “pochi secondi fa”, o addirittura “poche frazioni di secondo fa”. Lo capiremo meglio tra poco.

Per contro, rimane il dovere di “fare memoria”: proprio per evitare che la velocità e l’ipertrofia del flusso delle informazioni che è una caratteristica del nostro tempo seppellisca questo e altri eventi tragici della storia recente in quel mare magnum di nozioni, jingle, slogan, luoghi comuni e news (più o meno fake) che, rischiando di farci dimenticare cosa è successo e perché, gettano le basi per tragiche repliche.

La Storia ci insegna, SE la conosciamo. Altrimenti è lettera morta. Banale, lapalissiano, ma terribilmente vero.

I fatti, dunque; come al solito senza pretese di completezza e di esaustività.

Il contesto è quello dell’Unione Sovietica nella seconda metà degli anni ’80. Gorbachёv è alla guida del Paese dal 1985, e ha capito che uno dei modi per uscire dalla crisi strutturale che attanaglia l’URSS, aggravata dalla stagnazione e dall’immobilismo brezhneviani, risiede nel tentativo di colmare il gap tecnologico che separa la Russia dai Paesi occidentali più avanzati. L’Unione Sovietica infatti, ed è questo un modus che si è andato accentuando e sclerotizzando proprio con Brezhnev, vende all’Occidente energia in cambio di tecnologia e di prodotti di consumo, tutta concentrata com’è (ancora a metà degli anni ’80) sulla sopravvivenza del suo mastodontico apparato militare-industriale, al quale tutto è subordinato e il quale, paradossalmente perché era nato proprio con lo scopo di difenderla, rappresenterà la sua rovina.

Gorbachёv non lo sa, ma il suo tentativo è destinato al fallimento e a un esito che non solo egli non aveva previsto, ma che non avrebbe mai consapevolmente perseguito: il crollo di un intero sistema, sociale, politico ed economico. Ma la sua intuizione è giusta: la sconsiderata politica di Brezhnev calma la “fame” di prodotti di consumo del popolo sovietico e mette una “toppa” provvisoria al bisogno di tecnologie avanzate, ma priva l’industria dell’URSS del know-how necessario per realizzarle in autonomia.

Colmare il gap tecnologico con l’Occidente è un’impresa disperata, questo invece Gorbachёv lo sa; ma per tentarla, serve tanta energia: politica, morale se vogliamo, ma soprattutto elettrica.

L’Unione Sovietica ha un fantastico asso nella manica; o almeno, così crede, e fa credere, grazie alla propaganda. Si chiama RBMK: un acronimo russo che può essere tradotto con “reattore a canali ad alta potenza”. Studi per produrre un’unità raffreddata ad acqua, moderata a grafite e utilizzabile sia a scopi militari sia civili risalgono agli anni ’50, e conducono alla scoperta che l’utilizzo dell’uranio naturale (anziché dell’uranio arricchito) come combustibile può ridurre enormemente i costi operativi.

Il progetto del RBMK-1000, finalizzato nel 1968, prelude alla realizzazione di un reattore che può essere costruito su larga scala a costi contenuti rispetto alle unità occidentali, a confronto delle quali è in grado di produrre una quantità di energia molto maggiore.

Sembra l’arma perfetta per i piani di Gorbachёv: tanta energia, a basso costo.

E la sicurezza? In questo preciso contesto appare decisamente secondaria, e fondamentalmente per due ordini di motivi. Innanzitutto, perché in un regime totalitario, monopartitico e il cui unico scopo è l’autoconservazione del complesso militare-industriale, la “ragion di Stato” non può essere messa in discussione da considerazioni legate a possibili rischi, che comunque vengono considerati marginali. Che nelle moderne democrazie le cose vadano in modo diverso, e la salute e il benessere dei popoli siano al primo posto nella scala delle priorità, è una riflessione che lasciamo (per il momento) in sospeso.

Il secondo ordine di motivi riguarda proprio il carattere marginale dei rischi: i reattori RBMK sono davvero considerati sicuri, perché sicuro, infallibile e giusto è ritenuto il sistema economico, tecnologico e sociale che li ha concepiti e prodotti. La fallibilità appartiene al mondo occidentale, con le sue contraddizioni e le sue storture.

L’ideologia probabilmente non ha accecato scienziati e istituzioni al punto da far loro dimenticare le incongruenze tecniche e i possibili rischi legati all’operatività del RBMK emersi già durante la fase progettuale, ma tant’è: la strada è tracciata. Il primo reattore RBMK diviene operativo nel 1973, alla centrale nucleare di Leningrado.

Ragione di Stato, fede nell’infallibilità del Sistema; l’altro elemento-chiave senza il quale non si può cogliere la vera essenza della storia sovietica è la Segretezza. Gorbachёv è passato alla storia per la perestrojka, che in russo significa ricostruzione, ma l’altro concetto che ha guidato la sua politica è stato quello di glasnost, ovvero trasparenza; e cioè il tentativo (rivelatosi tragicamente controproducente) di squarciare il velo di riservatezza, di censura, di dosaggio delle informazioni, di segretezza appunto, che permeava a tutti i livelli i rapporti tra le istituzioni, e tra queste e il popolo, in Unione Sovietica.

Ecco che allora, nella notte tra il 25 e il 26 aprile del 1986, e precisamente alle 01:23:04, quando i tecnici della sala di controllo dell’Unità 4 della centrale nucleare di Chernobyl iniziano l’esecuzione di un test che era programmato da tempo e già più volte rimandato, e che dovrebbe servire a verificare il funzionamento dei sistemi di raffreddamento in caso di interruzione dell’alimentazione elettrica, essi danno il via, inconsapevolmente, a una reazione a catena che, facendo letteralmente saltare in aria la copertura di cemento del RBMK, espone il nucleo del reattore all’aria e diffonde nell’ambiente circostante detriti radioattivi e in breve, nei cieli di più di mezza Europa, letali particelle composte da atomi instabili.

Quello che sappiamo di quella notte è in buona parte frutto di ricostruzioni, simulazioni e modelli matematici, dal momento che a un certo punto gli strumenti, fuori uso, hanno cessato di registrare quanto stava accadendo: ad oggi, le ipotesi più accreditate parlano di un certo grado di responsabilità dei tecnici della sala di controllo, che probabilmente violarono alcune procedure di sicurezza per condurre a termine il test, ma mettono altresì in evidenza i difetti progettuali del RBMK, colpevolmente ignorati dalle autorità e dal mondo scientifico sovietico, denunciati dal responsabile della prima commissione d’inchiesta sull’incidente, Valerij Legasov, morto suicida nel 1988, e che a Chernobyl si sono palesati nella maniera più catastrofica possibile. Non lo sapremo mai con certezza, dato che è morto nel 1995 a seguito delle radiazioni assorbite, ma nelle ricostruzioni e nelle interviste Anatolij Djatlov, ingegnere nucleare esperto, capoturno all’unità 4 al momento della catastrofe, e quindi responsabile delle decisioni prese in quei frangenti, sembra sincero quando afferma che non riusciva a spiegarsi come il reattore fosse potuto esplodere. Lui, che era uno dei massimi esperti sovietici di energia nucleare. Lui, che aveva supervisionato la costruzione della centrale. I reattori RBMK non possono esplodere.

Chernobyl spazzò via in pochi istanti tutte le sue certezze e quelle della comunità scientifica sovietica tutta ed espose, oltre al nucleo del reattore numero 4, il fianco debole della propaganda, dell’apparato, del Partito, del Socialismo stesso. Chernobyl, al di là delle sue conseguenze ambientali e sulla salute, pressochè incalcolabili, è stato un colpo dal quale la credibilità del regime non si è più ripresa; è stato, e la storiografia – crediamo – non insiste abbastanza su questo punto, una delle cause principali del crollo di un sistema già malato terminale. Chernobyl è stato il prete, vestito di nero, che al capezzale dell’Unione sovietica le ha dato l’estrema unzione.

E il sistema, con l’ultimo colpo di coda, ha reagito come sapeva e – senza nulla togliere alle gravissime responsabilità di Gorbachёv e di tutto il Partito – nell’unico modo in cui, per come funzionava e per come era strutturato, avrebbe potuto reagire: con segretezza.

L’evacuazione di Pripyat, la città costruita a pochi chilometri dalla centrale per ospitarne i lavoratori e le loro famiglie, avvenne solo nel pomeriggio del 27 aprile, quando era ormai inevitabile per via degli altissimi livelli di radiazioni rilevati: la decisione non fu presa prima, perché si temeva che la diffusione della notizia avrebbe potuto scatenare il panico.

La comunità internazionale e la stessa popolazione dell’Unione sovietica appresero della catastrofe solo la sera del 28 aprile, quasi 70 ore dopo l’esplosione del reattore n°4, un tempo incredibilmente lungo se si pensa alla rapidità con cui le particelle radioattive si diffondono nell’atmosfera.

La mattina del 28 gli addetti della centrale nucleare di Forsmark in Svezia, allarmati per alcuni livelli fuori norma rilevati dai loro strumenti, capirono grazie ad analisi meteorologiche che una fuoriuscita incontrollata di particelle radioattive doveva aver avuto luogo nella parte occidentale dell’URSS: solo allora le autorità sovietiche ammisero l’incidente, che altrimenti sarebbe stato tenuto segreto per chissà quanto tempo.

Ancora, ma gli esempi potrebbero moltiplicarsi, la parata del 1° maggio a Kiev, che si trova a soli 100 chilometri dal sito della centrale, si svolse nonostante le autorità ben sapessero che i livelli di radiazioni rilevati in città erano di gran lunga sopra la norma e avrebbero consigliato, se non l’evacuazione della stessa capitale dell’attuale Ucraina, quanto meno la cancellazione di eventi all’aperto. Ma, di nuovo, non si volle comunicare fino in fondo la gravità di quanto era successo; non si volle creare il panico, che a quel punto sarebbe stato più che giustificato; non si volle ammettere che non solo il programma nucleare, ma tutto quel modo di vivere basato su segretezza, ideologia e controllo aveva fallito. E si preferì lasciare che migliaia di persone, tra cui donne e bambini, fossero esposte a livelli di radiazioni considerati troppo alti anche per gli operai di una centrale nucleare in stato di emergenza.

Ebbene, sono passati 35 anni da quel 26 aprile. Ma Chernobyl è lì a ricordarci ciò che è successo, coperta da un imponente sarcofago di metallo realizzato grazie a fondi internazionali e costato circa un miliardo e mezzo di dollari. Che però non ci proteggerà in eterno: il nucleo del reattore continua a emettere elementi radioattivi e l’area che circonda la centrale, diventata una “zona di esclusione” di più di 30 chilometri di raggio dalla quale sono state evacuate decine di migliaia di persone, non sarà abitabile per almeno altri ventimila anni. Tale è il tempo stimato che servirà ai nuclei degli atomi radioattivi di alcuni degli elementi presenti nel reattore n° 4 per raggiungere una situazione stabile, e quindi non più pericolosa per l’uomo e per l’ambiente.

A questo ci riferivamo all’inizio: da un certo punto di vista, dire “26 aprile 1986” equivale a dire “pochi secondi fa”.

Tutto questo dovrebbe indurci ad abbandonare definitivamente l’energia nucleare? Non lo sappiamo, ma si tratta in ogni caso di un processo lungo e complesso che non può essere affrontato sull’onda dell’emozione e della paura, e che deve fare i conti con la disponibilità delle altre risorse energetiche e con il ritardo accumulato da molti paesi nell’impiego delle fonti rinnovabili. A oggi, il nucleare contribuisce al 10% della produzione mondiale di energia elettrica, le fonti “pulite” si stanno facendo strada mentre i combustibili fossili hanno i giorni contati: tra 50 anni, secondo le stime più ottimistiche, le riserve di petrolio si esauriranno. E anche in questo caso, dire “tra 50 anni” è come dire “dopodomani”, per riprendere il concetto di poco fa.

Potremo davvero, in quest’ottica, fare a meno del nucleare? Vedremo. L’auspicio, forse un po’ da poveri illusi, ce ne rendiamo conto, è che simili decisioni vengano prese con un consenso più ampio possibile e con il coinvolgimento delle popolazioni interessate, che devono essere correttamente e puntualmente informate sui rischi e sui benefici, in nome di quella Trasparenza che troppe volte – la storia, come abbiamo visto, ce lo insegna – è stata sacrificata in nome delle ideologie o, più banalmente ma non meno tragicamente, della logica del profitto.

*responsabile settore musica Violet Moon